Ancora oggi non è possibile indicare con esattezza l’origine del nome Sangiovese. Se alcuni esperti lo ritengono legato alla figura di San Giovanni, altri considerano più veritiera la connessione a forme dialettali (riferimento specifico all’uva primaticcia nota come “San Giovannina“, caratterizzata dal precoce germogliamento). Infine, non mancano gli studiosi pronti a scommettere sul fatto che il nome derivi dal termine “sangue di Giove” (Sanguis Jovis), nomignolo attribuito al vino da un monaco cappuccino del convento di Sant’Arcangelo di Romagna, sito in prossimità del Monte Giove.

Se l’origine risulta incerta, lo stesso può dirsi in merito alle prime apparizioni del vitigno. Le notizie raccolte nel corso dei secoli sono decisamente frammentarie, e molte delle quali poco attendibili. Le prime informazioni sono apparse nel trattato “La coltivazione delle viti” del Soderini, pubblicato nel 1590. Nel testo l’autore indicava nel “Sangiocheto” (o “Sangioveto“), un vitigno in grado di assicurare la produzione regolare di un nettare “sugoso”. Tuttavia, nonostante la mancanza di scritti precedenti, diversi esperti sono concordi nel far risalire la comparsa del vitigno ad oltre 2000 anni fa. Sarebbero stati gli Etruschi a coltivarlo per primi, promuovendone la diffusione nel Centro Italia. A dar credito a tale tesi la coincidenza tra la parte del territorio conquistata dagli stessi Etruschi e i terreni in cui il vitigno ha raggiunto il massimo sviluppo (Toscana, Romagna e Umbria su tutti).

La Regione in cui questo vitigno è divenuto una vera istituzione è proprio la Toscana, mentre la seconda “Patria” è sicuramente la Romagna. A seconda del luogo di provenienza il vino assume nomi differenti. A Montalcino è conosciuto come “Brunello“, a Montepulciano come “Prugnolo“. Si ricordano anche “Sangioveto” nel Chianti e Morellino nella provincia di Grosseto. Il successo riscontrato lungo la nostra Penisola è testimoniato dal fatto che ben l‘11% delle superfici ospitanti vitigni rossi ospiti il vitigno in oggetto. È possibile trovare coltivazioni piuttosto estese nelle Marche, negli Abruzzi e nel Lazio. Lombardia, Valpolicella e Sardegna hanno destinato anch’esse molti terreni a questo vitigno. Proprio la sua diffusione nel nostro Paese ha permesso al vitigno di ottenere una fama pari a quella raggiunta in Francia dal Cabernet.

A variare, da Nord a Sud, sono le forme di coltivazione e la potatura (corta o lunga a seconda dei casi). Indipendentemente dalle modalità, quest’ultimo intervento deve essere in grado di arieggiare i grappoli. In caso contrario rischierebbero di svilupparsi patologie legate alle crittogame; questo in quanto il vitigno si rivela molto sensibile al marciume (vista la sottigliezza delle bucce degli acini) e alla Botrite (la muffa grigia della vite). Deve essere ricordata anche una certa intolleranza allo oidio (o mal bianco). Al contrario, il vitigno non ha difficoltà a sopportare le fasi di meccanizzazione indipendentemente dalla fase vegetativa. Come già notato dal Soderini, dà luogo a una resa elevata e costante nel tempo. È importante assicurare un periodico monitoraggio al fine di scongiurare fenomeni di eccessiva acidità, che finirebbero per pregiudicare la qualità del vino. La maturazione del grappolo deve avvenire senza fretta, consentendo ai tannini di evolversi nei giusti tempi. Affinandolo in botti di grandi dimensioni è possibile ottenere un vino ottimamente invecchiato. Normalmente vengono impiegati contenitori di legno, perfetti per conferire al vino aromi speziati (regalando note di vaniglia e liquirizia in primis).

In Italia sono ormai numerosissimi i “cloni” di questo vitigno (circa 40) a godere di omologazione ufficiale. Ad ogni modo, la maggior parte di queste varianti è riconducibile a 2 categorie principali composte, rispettivamente, da vini ricavati da piante ad acini “grossi” e da acini “piccoli“. Particolarmente apprezzato, nonché estremamente pregiato, è il “Sangiovese Grosso“, coltivato a macchia di leopardo nelle zone in cui avviene la coltivazione dei vitigni destinati alla produzione di Chianti, Brunello e Vini Nobili. Più comune, ma non meno apprezzabile è il “Sangiovese Piccolo“, prodotto in quasi tutte le Regioni del Centro e Sud Italia (dalla Campania alla Sicilia, passando per la Puglia).

Una serie di caratteristiche organolettiche rendono immediatamente riconoscibile il vino. A spiccare è il delicato e fresco bouquet, in cui trovano spazio sentori di amarena, ciliegia, violetta, iris, mora, prugna e persino pomodoro. Non mancano note di cappero, funghi, maggiorana, timo e tartufo, ma anche felce, muschio e sottobosco. La terra è ben percepibile, anche se non al livello del Barolo, così come i sentori legati al legno (tabacco, caffè, noci e sandalo). Da notare come i vini ottenuto dall’uva Sangiovese Grosso (ad esempio il Brunello di Montalcino) si distinguano per gli aromi di confettura, dovuti a una maturazione più lunga. Complessivamente il vino gode di un tannino poderoso ma caratterizzato, al contempo, da una consistenza setosa. Mai eccessivamente rotondo, risulta comunque caldo. Per quanto concerne il colore, nei primi 4 anni assume la tonalità rubino, per tendere successivamente al granato.

Profumo e colore consentono al vino di abbinarsi ottimamente a piatti di carne piuttosto saporiti, meglio ancora se a base di selvaggina. È resa giustizia anche a salumi e formaggi stagionati, oltre che a primi piatti, soprattutto se hanno come protagonista un formato di pasta ripiena. Le versioni più giovani, servite fresche, costituiscono un connubio interessante con pesci azzurri come sardine e sgombro.