Piemonte

Le Origini

Nota per la raffinatezza della sua architettura, Torino, è contornata da un paesaggio dominato da grandi vette alpine, ma l’immagine tipica piemontese è quella di morbide colline langarole avvolte nelle nebbie autunnali, con le vigne colorate di tutte le sfumature del rosso e del giallo, in attesa di raccogliere i grappoli più nobili, quelli del nebbiolo.

In Piemonte si fa vino da sempre. La viticoltura era probabilmente praticata già nel VI secolo a.C. dalle popolazioni celto-liguri e poi, sotto la dominazione romana, la vite si è diffusa lungo i più importanti assi viari. Nel Medio Evo si identificarono già tutte le zone vinicole più vocate. Così, nell’VII secolo d.C., i canonici del Duomo di Casale disboscarono e piantarono viti, in particolare di barbesino, l’attuale grignolino, diventando per il Monferrato quello che i monaci di Cluny erano per la Borgogna. La prima citazione del nebbiolo risale al 1268 ed è riferita a vigne coltivate sulla collina morenica di Rivoli, alle spalle di Torino, e Pietro de’ Crescenzi ne riparla nel 1330, nei suoi Ruralium Commodorum Libri Duodecim, attestandone la diffusione pei Monferrato. Poco più di un secolo dopo tocca ai Nebbiolo dell’Alto Piemonte diventare celebri, grazie a Mercurino Arborio di Gattinara, grande giurista, diplomatico e straordinario ambasciatore del vino di Gattinara, che portò sulle tavole dei potenti d’Europa.

Nel 1787 Thomas Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, durante un viaggio in Francia e nel Nord Italia, del Nebbiolo assaggiato all’Hotel d’Angleterre a Torino scrisse:

Quasi amabile come il morbido Madeira, secco al palato come il Bordeaux e vivace come lo Champagne

Solo nel XIX secolo i grandi rossi piemontesi assumeranno i connotati che li hanno resi famosi in tutto il mondo. Su tutti il Barolo, che nacque grazie al lavoro di Cavour e dei suoi maestri di cantina al Castello di Grinzane, il generale Francesco Staglieno e soprattutto il francese Louis 0udart, oltre all’opera di Juliette Colbert de Maulévrier, Marchesa di Barolo. E poi il Barbaresco, che alla fine del secolo definì la sua identità grazie a Domizio Cavazza, direttore della Scuola Enologica di Alba, nel frattempo divenuta centro di formazione di eccellenza. La fillossera, la forte frammentazione della proprietà contadina, la I Guerra Mondiale che svuotò le campagne e la massiccia emigrazione verso le Americhe, caratterizzarono la prima metà del XX secolo. Il vino piemontese non mori, anzi, mosse i primi passi verso la tutela della qualità. Per combattere il moltiplicarsi delle frodi, già alla fine del XIX secolo i produttori delle zone storicamente più vocate chiesero di delimitare le principali zone di produzione. Nel 1909 il Comizio Agrario albese defini i confini di produzione del Barolo.

Dopo la I Guerra Mondiale, il vigneto piemontese si ristrutturò, con un boom di impianti nelle Langhe e nel Monferrato, ma soprattutto di varietà resistenti alla fillossera, come barbera, dolcetto e freisa. Risultato: crescita produttiva e abbassamento di prezzi e di qualità. Nel Ventennio la coltivazione della vite e la produzione di vino di qualità passarono in secondo piano, a vantaggio delle colture cerealicole, ma nel giugno del 1927 la Gazzetta Ufficiale pubblicò il Decreto sui vini tipici, che delimitava ufficialmente la zona del Barolo. La ripresa dopo la II Guerra Mondiale è stata faticosa. Il mitico 1947 è stata un’annata straordinaria per i rossi piemontesi, ma le limitate disponibilità economiche e la tumultuosa industrializzazione rischiarono di far perdere una tradizione più che millenaria: nel 1961 gli ettari vitati crano 146.692, nel 1990 solo 61.997. Nonostante le difficolta, un nucleo forte di aziende storiche mantenne alto il livello della qualità dei vini piemontesi.

Negli anni 80, la svolta. Nel Roero riprese con grande successo la coltivazione dell’arneis, nelle Langhe e nel Monferrato una nuova generazione di vignaioli tornò alla terra dopo gli abbandoni degli anni ’60-’70. Non sono enologi, ma hanno viaggiato, conoscono le tecniche produttive ei nuovi vini borgognoni e bordolesi, e decidono di cambiare stile e immagine al Barolo e alla Barbera d’Asti: non più Nebbiolo austeri che richiedono lunghi tempi di evoluzione, non più Barbera facili e quotidiani, ma vini più suadenti, strutturati e adatti ai mercati internazionali. I nuovi vini rossi sono molto diversi da quelli della tradizione, hanno un successo immediato e nelle Langhe scoppia una polemica aspra tra tradizionalisti e innovatori, che sostengono due filosofie vinicole in apparenza inconciliabili. I media soffiano sul fuoco, limitandosi alla questione barrique si, barrique no. Nel tempo le posizioni si stemperano, spariscono le estremizzazioni nell’uso dei legni da una parte e dall’altra, l’attenzione si sposta sulla valorizzazione dei vigneti ed emergono diversi stili produttivi, sia tradizionali sia innovativi. Il Piemonte è una terra di vini rossi leggendari come il Barolo e il Barbaresco, ma anche di bianchi emergenti e di spumanti e vini aromatici dolci che hanno fatto la storia dell’enologia nazionale.

La cucina piemontese è ricca di prodotti di grande pregio, con carni e formaggi prelibati, deliziosi porcini e ovoli e, su tutti, il prezioso tartufo bianco d’Alba. Gli agnolotti alla monferrina sono perfetti con il Grignolino d’Asti, che si sposa molto bene anche con il coniglio con i peperoni, il risotto al montèbore, antico formaggio della Val Borbèra, con il Timorasso e la classica paniscia novarese con un Ghemme non molto evoluto. Ideale è anche l’abbinamento dei classici ravioli di Gavi, serviti al tocco, con borraggine e carne, secondo la tradizione genovese diffusa anche nell’Alto Monferrato, oltre che delle cipolle ripiene di amaretti, zucca e mostarda, con una flûte di Gavi.

Se la Freisa d’Asti è perfetta con il fritto misto alla piemontese e la bagna cauda, il Roero Arneis è il compagno ideale del vitello tonnato e il Dolcetto di Ovada del pollo alla Marengo e dei batsoà, i tradizionali zampini di maiale cotti, passati nell’uovo e nel pangrattato e infine fritti. I sette tagli del bolmo piemontese sono esaltati dalle doti di una Barbera d’Alba, una scaglia di castelmagno stagionato da un Barolo di grande classe, mentre con il camoscio alla piemontese si può provare un Gattinara, perfetto anche con lo storico tapulone, tracotto d’asino tipico della zona tra Novara e il Cusio.

Il clima ed il territorio

Il Piemonte presenta un’orografia varia e articolata. Le montagne occupano il 43.3% del territorio, la pianura il 26.4% e le colline il 30.3%; su queste ultime, da sempre, si è sviluppata quasi esclusivamente la viticoltura, con ampie differenze pedoclimaticne.

Il clima del Piemonte è continentale, con inverni lunghi, freddi e con frequenti nevicate, estati calde e siccitose, sensibili escursioni termiche tra il giorno e la notte. Ma ogni zona ha le proprie peculiarità relative a temperature e precipitazioni, tanto che le aree pedemontane a nord del Po si distinguono in modo significativo da quelle collinari del Sud della regione. Nei secoli, l’uomo ha risposto a questa variabilità con specifici metodi di coltivazione della vite e accurate selezioni delle uve più adatte a ogni area. Il risultato è che, nel mondo, sono poche le aree vitivinicole in cui il connubio tra terreno, clima e vitigno assume cosi grande rilevanza nella definizione dei caratteri organolettici dei vini. Il caso più significativo è quello del nebbiolo, coltivato sia nel Nord sia nel Sud della regione. Le forti escursioni termiche ed i terreni acidi ricchi di minerali offrono ai vini una particolare finezza olfattiva e una netta sapidità, soprattutto nelle zone di Biella, Vercelli e Novara.

Nelle Langhe i terreni sono più compatti, marnosi e con presenza di gesso e argilla, le escursioni termiche e la piovosità sono meno accentuate e portano a vini con una imponente trama tannica, piủ complessi e dotati di un ottimo impatto balsamico. Nel vicino Roero, infine, dove si registra l’indice di piogge più basso della regione, i terreni ricchi di sabbie di basso fondale conferiscono ai vini da nebbiolo una maggiore immediatezza olfattiva e una trama gustativa caratterizzata da una più precoce bevibilità. Nel Monferrato i terreni ricchi di sedimenti marini rendono ancora riconoscibile la linea di spiaggia, dove i suoli da limosi e chiari diventano sabbiosi e scuri, di matrice calcarea e alcalina, che dona ai vini particolari note fruttate. Altrettanto interessanti sono i terreni di origine morenica del Canavese, originati dallo sfaldamento dei ghiacciai, molto poveri ma ricchi di minerali che caratterizzano fortemente, in particolare, l’erbaluce.

Zone vitivinicole

Il Piemonte è un territorio vitivinicolo composito, in cui si produce vino quasi ovunque, ma per omogeneità storico-pedoclimatica si possono distinguere sei aree fondamentali: l’area pedemontana tra Saluzzo e Torino, il Monferrato astigiano, l’Alto Monferrato, il Roero, le Langhe e l’Alto Piemonte.

L’area pedemontana tra Saluzzo e Torino: nell’ampia zona pedemontana, a volte montana, compresa tra l’antico marchesato di Saluzzo e le valli alpine torinesi la vite è coltivata da tempo immemore, come testimoniano numerasi documenti risalenti al Medio Evo.

Alle pendici delle valli che accompagnano il primissimo corso del Po, la denominazione Colline Saluzzesi prevede soprattutto un Rosso a base di pelaverga, barbera e nebbiolo, ma anche di chatus, originario della zona Savoia-Delfinato; le produzioni in purezza coinvolgano il pelaverga e l’autoctono quagliano, che dà un raro vino rosso da dessert, anche spumante, profumato di viola e lampone, perfetto con biscottini secchi con confetture di frutta.

Risalendo verso Torino, sulle colline e sulle prime pendici montane delle valli Pellice, Chisone e Germanasca, la denominazione Pinerolese comprende nebbiolo, barbera, bonarda, freisa e dolcetto, che si ritrovano insieme nel rosso e nel rosato. Ma ci sono due chicche. La prima è il vino ottenuto dall’autoctono doux d’henry, che sarebbe arrivato nel Pinerolese al seguito del Re di Francia Enrico IV, un delicato rosato profumato di lampone. La seconda è il tradizionale Ramie, rarissimo vino di montagna, con sentori di piccoli frutti e fiori rossi, decisa freschezza e moderata alcolicità, prodotto con le antiche varietà locali avana, avarengo, neretto e becuet, impiantati in bei vigneti terrazzati. Questo originale mix di varietà autoctone si ritrova anche nella vicina denominazione Valsusa, dove la viticoltura si fa spesso eroica. Più a nord le basse montagne dei fondovalle e le colline moreniche create dai ghiacciai preistorici valdostani sono protagoniste della denominazione Canavese: rosso e rosato piemontesissimi a base di nebbiolo, barbera, freisa, bonarda e neretto, oltre a un bianco a base di erbaluce, al quale è dedicata la DOCG Erbaluce di Caluso o Caluso. Prodotto nell’area più vocata delle colline moreniche canavesane, é un bianco fermo o un intrigante Spumante, ma soprattutto un passito unico per complessità, freschezza e longevità, che meriterebbe ben altra notorietà.

La denominazione più settentrionale della provincia di Torino è Carema, un Nebbiolo eroico. Coltivato da secoli su meravigliose pergole sostenute da imponenti pilùn, tra i 360 ed i 700 metri, a pochi chilometri dalle grandi cime valdostane, il nebbiolo dà un vino profumato di viola e sottobosco che può invecchiare perfettamente per decenni. Un vino da provare con arrosto in salsa di prugne.

A ridosso di Torino si sviluppa la denominazione Collina Torinese, che comprende solo vini rossi. Oltre ai consueti vini ottenuti da barbera, freisa e malvasia, si producono un profumatissimo e sempre più raro vino dolce, il Cari, nome locale del pelaverga grosso, e la dolce e aromatica Malvasia di Castelnuovo Don Bosco, da malvasia di Schierano: due vini da dessert perfetti con una mousse di frutti di bosco.

Infine, la denominazione Freisa di Chieri, in versioni secche e dolci, ferme, frizzanti e spumanti. Il secco vivace è il classico e piacevole vino delle trattorie torinesi, profumato di ribes con una sfumatura vegetale, molto versatile a tavola, che si abbina bene anche con strudel di verdure e pancetta.

Una curiosità: come la vigna di Montmartre a Parigi e le vigne urbane di Vienna, a Torino è rinata la Vigna della Regina, storicamente ubicata sulla collina che sovrasta il centro, nell’incantevole cornice di Villa della Regina, fascinosa dimora seicentesca voluta dal Cardinale Maurizio di Savoia, dimora prediletta di due consorti dei Re di Sardegna, Anna Maria di Orleans e Maria Antonia Ferdinanda di Spagna. Solo un ettaro impiantato a freisa, che rientra nella denominazione Freisa di Chieri.

Il Monferrato astigiano
Poco più a est è già Monferrato, la più grande area viticola piemontese, che si estende dalla provincia di Asti ai colli casalesi, fino a lambire la piana alessandrina. Una successione ininterrotta di colline vitate, segnate dallo scorrere del Po, del Tanaro, del Belbo e del Bormida, permette di distinguere due ulteriori macrozone, che comprendono ben 23 denominazioni di origine.

Nell’area più settentrionale, tra il Tanaro e il Po, si trova il Monferrato Casalese, dove barbera, grignolino, freisa e malvasia caratterizzano colline ondulate che si estendono dal confine con la provincia di Torino alla direttrice Asti-Moncalvo. Piccole denominazioni sono Albugnano, una enclave di nebbiolo in terra astigiana, Gabiano e Rubino di Cantavenna, che vedono la compartecipazione dei tre vitigni astigiani per eccellenza, barbera, grignolino e freisa. Casale e le colline verso Alessandria sono la culla della DOCG Barbera del Monferrato Superiore e delle DOC Grignolino del Monferrato Casalese e Barbera del Monferrato. Un tempo, queste due barbera erano spesso vini facili e lievemente frizzanti, ma negli ultimi vent’anni hanno compiuto un importante cambio di passo che ha portato i produttori più attenti ad allinearsi ai più alti standard di qualità, con vini più strutturati e dotati di notevole potenziale evolutivo.

A sud del Tanaro si trova l’altra grande macrozona monferrina. All’estremità ovest, ai confini con il Roero, aprono i giochi le due denominazioni Cisterna d’Asti, originale isola di croatina in terra di nebbiolo e barbera, da provare con il salame cotto, e Terre Alfieri, con vini a base di arneis e nebbiolo prodotti in purezza al di fuori dei loro territori storici. Procedendo verso sud-est, la Langa del nebbiolo cede il passo alla barbera, che nel quadrilatero tra Castagnole Lanze, Asti, Nizza Monferrato e Canelli trova il suo territorio di elezione, distribuito tra gli oltre cento comuni della Barbera d’Asti DOCG. Qui, nei secoli, sono state individuate le vigne più vocate, la barbera ha occupato le posizioni migliori e, con un’importante accelerazione negli anni ’80, é diventata uno dei più grandi vini piemontesi. Non è un caso che proprio qui si siano individuate le tre sottozone della DOCG: Tinella, Colli Astiani e soprattutto Nizza.

Non solo barbera, però, perché la recentissima denominazione Calosso è dedicata al raro, autoctono gamba di pernice, intensamente speziato. In fase di espansione è la coltivazione dell’albarossa, incrocio di chatus e barbera creato nel 1938 dal Professor Dalmasso, diffuso soprattutto nell’Acquese e nel nord dell’Astigiano, in grado di offrire ai vini intensità cromatica, ottima acidità e decisa nota alcolica.

Poi c’è il Moscato. È lungo il corso del Belbo, dove la Langa da cuneese si fa astigiana, che la DOCG Asti o Moscato d’Asti ha il suo feudo, nei comuni di Mango, Santo Stefano Belbo, Canelli e un’altra cinquantina fino alla provincia di Alessandria, con terre bianche fino al Bormida, ai confini con l’Acquese. Inoltre, si trova una piccolissima ma splendida chicca: il Loazzolo DOC. In una manciata di ettari in un unico comune, la storica tradizione di fare appassire i grappoli migliori è stata elevata alla nobiltà dell’arte, che regala un vino da dessert straordinario, con eleganti profumi di vaniglia e frutta candita, dolce e persistente, perfetto con formaggi stagionati oppure con ciaccolatini farciti con crema e frutti di bosco.

Oltre all’estesissima denominazione Monferrato, 230 comuni nelle province di Asti e Alessandria, con un’ampia base ampelografica vinificata in rosso, rosato e bianco spesso anche in uvaggio con vitigni internazionali, vanno ricordate le denominazioni Cortese dell’Alto Monferrato, a cavallo tra le province di Asti e Alessandria e Dolcetto d’Asti, testimonianza della continuità produttiva del più schietto tra i vitigni picmontesi in tutto il Sud della regione.

L’Alto Monferrato
Ad Acqui inizia un territorio con storia e caratteri diversi: l’Alto Monferrato.

Dalla Bormida di Spigno all’Oltrepò Pavese, dalla piana alessandrina all’Appennino ligure, è un patchwork di paesaggi, tradizioni e dialetti che fondono radici piemontesi, liguri e padane: la più meticcia delle zone vinicole regionali, rilevante per i suoi vini rossi, è soprattutto una terra di bianchi importanti.

La prima area è l’Acquese, in cui la continuità con il resto del Basso Piemonte vinicolo sta nella coltivazione del dolcetto nell’omonima denominazione Dolcetto d’Acqui. Ma l’Acquese è stato definito soprattutto il distretto degli aromatici, perché in nessun’altra zona d’Italia il peso dei vini dolci aromatici è tanto rilevante. Estrema propaggine orientale della DOCG Asti, Acqui è il centro della DOCG Brachetto d’Acqui dedicata a spumanti metodo Martinotti o a vini lievemente frizzanti, raramente passiti, ideali con crostate di fragoline di bosco. Nella piccola denominazione Strevi si fanno appassire i grappoli migliori del moscato per produrre un vino da dessert intensamente aromatico, imperativo con una piemontesissima torta di nocciole.

A Ovada, sulle colline tra l’Orba e lo Stura, Genova è a soli 40 chilometri e con essa la gastronomia ligure profumata di erbe aromatiche, che richiede vini rossi eleganti, come alcune versioni di Dolcetto di Ovada, ma anche bianchi freschi e sapidi, che nei secoli le grandi famiglie nobiliari genovesi venivano a produrre nelle loro terre feudali, le colline comprese tra Gavi, Novi Ligure e Serravalle Scrivia. Qui, fino alle prime pendici appenniniche, il cortese trova la sua nobiltà nella DOCG Gavi o Cortese di Gavi, con vini freschi e sapidi, longevi nelle migliori cspressioni, e raffinati spumanti metodo classico. Idcali con caprini di media stagionatura o pesce persico alla salvia.

Infine il Tortonese, che sfuma nel lombardo Oltrepò Pavese, per secoli chiamato Vecchio Piemonte. Nella denominazione Colli Tortonesi si trovano barbera, con centro di elezione nella sottozona Monleale, dolcetto, qui chiamato nibiò, e cortese, oltre alla favorita e alla croatina oltrepadana. Ma soprattutto c’è un unicum tortonese, il timorasso, che dopo un decennio di avvincente sperimentazione dà forse il più grande bianco del Sud Piemonte, complesso e strutturato, longevo e in grado di stare alla pari con i più blasonati vini d’oltrepo. Un vino perfetto con un risotto allo zenzero e prezzemolo.

Da luglio 2015 il Consorzio Tutela Vini Colli Tortonesi, con l’intento di legare il Timorasso al suo territorio, ha deciso che il vino prodotto con questo vitigno si può chiamare Derthona, antico nome della città di Tortona. Al momento, però, rimane ancora una scelta facoltativa di ciascun produttore.

Il Roero
L’altra grande direttrice di lettura del vino piemontese segue un asse fortissimo, il nebbiolo, radicato nel Sud Roero e Langhe e nel Nord Biellese, Vercellese, Novarese della regione. II Roero è una piccola e movimentata regione collinare sulla sinistra orografica del Tanaro, mentre sulla destra si trovano le Langhe. Il fiume divide due mondi. Il Roero è quasi un quadrato definito da Bra, Alba, Govone e Sommariva Bosco, con epicentro produttivo a Canale d’Alba. Arenarie, rocce sedimentarie di origine marina con strati di calcare e argilla, ma soprattutto di sabbie ricche di fossili, rendono i terreni soffici e permeabili, dove la vite si è sviluppata grazie ai pendii ripidi, soleggiati anche nelle stagioni fredde, e alle precipitazioni limitate. Una situazione ideale per produrre vini rossi caldi e suadenti, potenti e profumati.

Nella DOCG Roero il protagonista è il nebbiolo, che qui coniuga il vigore tannico e il consueto potenziale di longevità, soprattutto nella Riserva, con un impatto aromatico complesso già in gioventù, doti perfette in abbinamento con un arrosto di fassona piemontese al rosmarino.
Estesa anche in ampie zone delle Langhe, la denominazione Nebbiolo d’Alba trova nel Roero il suo cuore pulsante, di livello spesso non inferiore alla DOCG, tanto che alcuni produttori scelgono questa denominazione per il loro vino rosso di punta. E risultati eccellenti si ottengono anche nella denominazione Barbera d’Alba, in alcuni comuni oltre il Tanaro, con vini di grande vigore, morbidezza ed eleganza.

La principale peculiarità del Roero è l’arneis, antico vitigno autoctono a bacca bianca riscoperto negli anni ’70, che in breve ha ottenuto uno straordinario successo commerciale e di immagine. Il vitigno è versatile, tanto che il Roero Arneis DOCG, oltre alla classica versione ferma, prevede anche lo Spumante, da provare al momento dell’aperitivo oppure con carpaccio di branzino al pepe rosa. Non sono rari i vignaioli che ne ricavano interessanti passiti con sovramaturazione delle uve in pianta, delicatamente dolci e con buona acidità, che li rende perfetti con formaggi erborinati.  Infine la denominazione Langhe Favorita sancisce la storica presenza di questa declinazione piemontese del vermentino.

Le Langhe
Attraversato il Tanaro in direzione di Alba, si entra nel cuore dell’enologia piemontese: le Langhe, delimitate dal fiume a ovest, dalle Alpi Liguri a sud, dal Monferrato a nord e ad est, confini tracciati dalla geologia e dalla storia. I suoli sono calcareo-argillosi, adatti a produrre vini complessi e strutturati, anche se si sono identificate due zone differenti.

L’area tortoniana, più recente e con maggiore presenza di sabbia, caratterizza le colline di Barolo e La Morra; quella elveziana, più antica e con terreni di maggiore struttura, si identifica con le colline di Monforte e Serralunga. La zona centrale, che armonizza i due territori in modo sublime, é quella di Castiglione Falletto, ma in tutti questi comuni si trovano decine di cru che nei secoli hanno mostrato una straordinaria capacità di dare vini potenti ed eleganti, complessi e longevi. E ancora: proprietà frammentate, un saper fare tradizionale trasmesso di generazione in generazione, una civiltà contadina irripetibile, non scritta ma incisa nel più emozionante paesaggio viticolo della regione.

Il re è il nebbiolo, ma la sua corte è fastosa: barbera, dolcetto, pelaverga e moscato. Un territorio imprescindibile per ogni appassionato di vino.

Quasi a metà strada tra Barbaresco e Barolo si trova l’area del Dolcetto di Diano d’Alba DOCG, con vini potenti e molto fruttati, qualità esaltate nei territori a sud di Barolo e nel Dogliani DOCG, che comprende anche l’area più vicina alle Alpi, la Langa di Mondovi, con colline che superano i 500 metri. Vino quotidiano per eccellenza è quello della denominazione Dolcetto d’Alba, che abbraccia tutto il territorio delle Langhe non coperto da altre denominazioni specifiche del vitigno.

La denominazione Barbera d’Alba rappresenta la declinazione langarola-roerina del più diffuso vitigno piemontese, in grado di raggiungere altissimi livelli qualitativi, meno minerale e più versatile della sorella astigiana, che risulta più strutturata e complessa.

Ai margini occidentali delle Langhe, nella denominazione Verduno Pelaverga sopravvive la coltivazione del pelaverga piccolo, che secondo la tradizione sarebbe stato introdotto nel comune di Verduno e zone limitrofe, alla periferia della zona del Barolo, dal Beato Sebastiano Valfré. Vino raro e curioso, fruttato, speziato e di media struttura, si accompagna con tagliatelle al ragù di coniglio.

Esiste anche una Langa che rientra nella zona della DOCG Asti e Moscato d’Asti, a Neive, Santo Stefano Belbo, Mango e Castiglione Tinella, dove la provincia di Cuneo sfuma nel Monferrato, su colline ripide, bianche e siccitose ma di incantata bellezza, che hanno ispirato Cesare Pavese e Beppe Fenoglio. Tutto questo si ritrova in un bicchiere di ineguagliabile fragranza e piacevole aromaticità, delizioso con una torta di fragole e panna.

Nelle Langhe sono presenti anche due denominazioni di ricaduta.

La più diffusa è la denominazione Langhe, con un’ampia base ampelografica che comprende anche vitigni internazionali, chardonnay in purezza, altre varietà autorizzate non aromatiche nelle denominazioni bianco e ross0, ma è spesso rivendicata per produrre l’Arneis sulla destra orografica del Tanaro, il Nebbiolo, una sorta di secondo vino nelle zone del Barolo e del Barbaresco, e il tradizionale Freisa.

In un ampio territorio a cavallo tra Langhe e Roero si estende la denominazione Alba, con vini da nebbiolo e barbera in assemblaggio, che però non è mai decollata ed è poco frequentata dai coltivatori cuneesi.

L’Alto Piemonte
Le tracce del nebbiolo, qui chiamato spanna, portano poi a settentrione.

L’Alto o Nord Piemonte comprende l’area dei colli novaresi, vercellesi e biellesi, lungo una linea ideale che dalle colline di Lessona arriva ai rilievi della bassa Val d’Ossola. Una fascia pedemontana con all’orizzonte l’unico vero massiccio himalayano d’Europa: il Monte Rosa. Qui, in 64 comuni delle province di Biella, Vercelli, Novara e Verbano-Cusio-Ossola, regna il nebbiolo, con presenze minoritarie di vespolina, croatina e uva rara, detta anche bonarda. Un piccolo spazio è occupato dai vitigni a bacca bianca, tra i quali soprattutto l’erbaluce.

Non molti decenni fa l’Alto Piemonte era una vigna di 40.000 ettari, ma lo sviluppo dell’industria, in particolare tessile, ha cambiato il panarama sociale e ambientale, e in pochi anni le vigne si sono ridotte a 700 ettari, lasciando il posto al bosco o ad altre coltivazioni. Eppure si tratta di un territorio straordinariamente vocato, con una forte differenziazione di terroir, che il legislatore ha recepito creando numerose denominazioni in una zona geografica relativamente piccola.

Il porfido, sui cui si è depositato un fitto strato di sedimenti marini, in particolare sabbie, caratterizza la straordinaria finezza del Lessona, nel comune omonimo in provincia di Biella, un nebbiolo longevo e di classe rara, perfetto con agnolotti al sugo di arrosto.

L’area del Bramaterra, piú vasta e a cavallo tra le province di Biella e Vercelli, presenta zone ricche di argilla e di porfido ed enclave calcaree atipiche per l’Alto Piemonte, che rendono l’ omonimo vino particolarmente fruttato.

In provincia di Vercelli, la DOCG Gattinara sfrutta i terreni poveri di humus con sottosuolo roccioso per ottenere vini potenti e austeri, speziati e tostati. In questo vino, il più storico dell’Alto Piemonte, lo spanna esprime un’aristocratica mineralità e una longevità che ne fanno uno dei più fascinosi vini a base nebbiolo, che facevano dire a Mario Soldati:

Un sorso di Gattinara, purché vero, s’intende. Non chiedo di più

Attraversato il Sesia, si entra in provincia di Novara. Sulla sinistra orografica del fiume, i terreni morenici, sciolti, con forte presenza argillosa a Ghemme, Fara e Sizzano, favoriscono la produzione di vini piacevoli e di moderato tenore alcolico.

La DOCG Ghemme, meno nota della vicina vercellese, eppure anch’essa di antichissima tradizione, si mette in luce con punte di eccellenza sulle colline di Ghemme e Romagnano, con tannini e acidità che garantiscono lunghe evoluzioni.

Nella fascia collinare più meridionale, Sizzano e Fara sono due denominazioni comunali nelle quali i vitigni complementari al nebbiolo trovano più spazio e danno vini di buona struttura.

Più a nord, poco più di una decina di ettari vitati su terreni porfirici sono tutto ció che rimane della denominazione Boca, peraltro in dinamica ripresa grazie all’intraprendenza di alcuni giovani produttori e all’eccezionalità dei terreni magri, porfidi rosa con sfumature viola. In genere, il Boca è un vino piuttosto povero di colore, ma minerale, sapido e ricco di acidità. Se invecchiato, si sposa alla perfezione con agnello ai porcini.

Valli Ossolane è la più settentrionale delle denominazioni piemontesi ed è stata creata per tutelare la tradizione vinicola del Verbano-Cusio-Ossola, dove il nebbiolo è chiamato prunent. Anche nel Nord Piemonte sono state create due denominazioni di ricaduta, Coste della Sesia e Colline Novaresi, utilizzando, oltre al nebbiolo, barbera, vespolina, uva rara, croatina ed erbaluce, che viene chiamato greco novarese.

Un ultimo cenno a due denominazioni transterritoriali del Sud Piemonte. La più importante è Alta Langa, DOCG dal 2011, nata per valorizzare chardonnay e pinot nero per la produzione esclusiva di spumanti metodo classic0 di alta qualità, favorendone l’impianto in zone alte e con escursioni termiche ideali nelle province di Cuneo, Asti e Alessandria. La produzione è in crescita, a livello quantitativo e soprattutto qualitativo.

Infine la DOC Piemonte, estesissima denominazione di ricaduta, comprende 359 comuni nelle province di Alessandria, Asti e Cuneo che prevede tutti i principali vitigni internazionali, numerosi autoctoni piemontesi e tutte le possibili tipologie di vino. Più che un vero riferimento territoriale, la denominazione raccoglie molte produzioni che altrimenti non avrebbero un disciplinare di controllo.

Vitigni

Il vigneto piemontese si estende su 48.100 ettari ed è sfumato sulle tonalità blu e viola di grappoli che daranno vini di grande qualità: nel 2013, su una produzione di circa 2.580.000 ettolitri di vino, circa l’81% era costituito da vini DOP. Eccezione: il Piemonte e la Valle d’Aosta sono le uniche regioni italiane che non propongono vini IGP.

Il sistema di allevamento della vite più utilizzato è il guyot, mentre nel Canavese per l’erbaluce e a Carema per il nebbiolo resiste la pergola. La base ampelografica è essenzialmente autoctona o comunque tradizionale. Tra i primi 20 vitigni coltivati solo 5 sono varietà internazionali, chardonnay, cabernet sauvignon, merlot, pinot nero e sauvignan blanc , ma il totale della loro superficie vitata non raggiunge il 5%, occupata dal solo cortese, la quinta varietà autoctona.

I vini piemontesi sono soprattutto rossi ottenuti da monovitigno che, insieme ai pochissimi rosati, comunque in crescita, rappresentano oltre il 60% della produzione complessiva, anche se il moscato bianco è la base per la produzione di 85 milioni di bottiglie di Asti e Moscato d’Asti, vini apprezzati in tutto il mondo. Il vitigno a bacca nera più coltivato, diffuso in gran parte della regione, è la barbera, che da sola rappresenta circa il 30% del vigneto piemontese. Vitigno a maturazione medio-tardiva, è vinificato per lo più in purezza, è versatile e consente di ottenere vini molto differenziati, dai tradizionali frizzanti e beverini, sempre meno diffusi, alle versioni più strutturate e ambiziose, in grado di garantire ottime evoluzioni nel tempo.

In gioventù, i vini da barbera sono dotati di spiccata acidità e intensità cromatica, con decisi sentori di rosa, ciliegia e mirtillo, mora e sottobosco, tannini piuttosto moderati ma, se ottenuti da viti impiantate in zone ben esposte, buona nota alcolica. Vitigno di punta del Monferrato astigiano, dove è diffuso nelle aree con le migliori esposizioni, la barbera ricambia questa attenzione con ottimi risultati, così come nelle Langhe e nel Roero, dove le posizioni privilegiate sono riservate al nebbiolo. Negli ultimi venti anni la barbera ha dato vini eccellenti anche nell’Alessandrino e nel Tortonese, dove il vitigno ha ampia e tradizionale diffusione.

Il grande nebbiolo, una delle più importanti uve a bacca nera del mondo, occupa solo il 10% del vigneto piemontese, ma è la prova che quantità non fa sempre rima con qualità. Varietà a maturazione lenta, dotata di un importante corredo di zuccheri, acidi e polifenoli, nei territori in cui è coltivato è la prima pianta a germogliare e l’ultima a perdere le foglie, ed è vendemmiato in epoca tardiva, anche oltre la metà di ottobre. Nelle Langhe sono coltivate le tre sottovarietà lampia, michet e l’ormai raro rosé, nell’Alto Piemonte è coltivato il biotipo spanna, mentre a nord di Ivrea il vitigno prende il nome di picotendro.

Le ipotesi sull’origine del nome sono diverse, ma la più verosimile lo farebbe derivare dalla nebbia che avvolge il vigneto e crea un’atmosfera affascinante nel periodo della vendemmia. Una certezza ė invece il carattere dei vini da nebbiolo, complessi, austeri e straordinariamente longevi, con tonalità granato, profumi di frutti di bosco, viole e spezie, importante nota alcolica e tannini graffianti che si levigano con l’evoluzione, quando il bouquet si arricchisce di sentori di liquirizia, cuoio e tabacco. E come il pinot nero, il nebbiolo riflette con grande sensibilità le caratteristiche pedoclimatiche del territorio.

In passato il freisa era considerato un vitigno di grande pregio, nel 1799 Nuvolone ne parlava come di “uve nere di prima qualità”, ma la superficie vitata è in continua diminuzione e si concentra soprattutto nel Chierese e sulle colline ai confini delle province di Torino e Asti. Il freisa divide: alla mensa di Vittorio Emanuele II non mancava mai, il gusto contemporaneo non pare apprezzarlo. Vendemmiato a fine settembre, possiede una buona dotazione cromatica e un significativo corredo acido-tannico. I vini sono  secchi o dolci, anche frizzanti, in genere dotati di colori intensi, profumi di frutti di bosco e rose, viole e pepe, con una consistente trama tannica soprattutto nelle versioni più strutturate, destinate anche a una discreta evoluzione in legno. Piemontesissimo è il grignolino, originario delle colline tra Asti e Casale Monferrato, tuttora l’area di massima vocazione. II nome pare derivare da grignòle, termine dialettale dei vinaccioli, di cui i suoi acini sono ricchi. Un tempo diffusissimo, ha sofferto la distruzione fillosserica: la scarsa produttività e le difficoltà di coltivazione hanno provocato la sua sostituzione con la barbera, alla quale già contendeva le esposizioni migliori. Raccolto a fine settembre, produce vini di moderata intensità cromatica, ricchi di profumi di pepe bianco, chiodi di garofano e lamponi, di media struttura, freschi e piacevolmente tannici. Quasi inesistente al di fuori del Monferrato, il Grignolino è un vino poco conosciuto oltre i confini regionali, ma per le caratteristiche gustative non omologabili e la versatilità a tavola, è oggetto di tenace affezione da parte dei vignaioli. In passato era un vino destinato all’invecchiamento, pratica oggi ripresa da alcuni viticoltori con risultati molto interessanti.

Tra le numerose varietà minori a bacca nera merita una particolare menzione il ruchè antico vitigno probabilmente originario di Castagnole Monferrato e dei comuni limitrofi, in provincia di Asti. Vendemmiato verso la terza settimana di settembre e u po’ eccentrico, dà vini di colore rubino, con originali profumi di pesca e rosa, fragolina di bosco e spezie, tannici e non particolarmente freschi. Il pelaverga e il pelaverga piccolo sono due vitigni distinti che danno vini molto diversi. II pelaverga, originario del Saluzzese e presente in misura limitata nel Chierese, matura a inizio ottobre e produce vini fruttati di fragola e ribes rosso, freschi e delicatamente caldi, per tradizione dolci sulle colline intorno a Torino. Il pelaverga piccolo, coltivato nel comune langarolo di Verduno, matura in epoca medio-tardiva e dà vita a vini di colore rubino chiaro, con intensi profumi di lampone e pepe, di media struttura, buona freschezza e limitata nota alcolica. Nell’Alto Piemonte è diffusa la coltivazione di vitigni tradizionalmente complementari del nebbiolo. La vespolina apporta colore e profumi speziati ed è talvolta impiegata in purezza, l’uva rara o bonarda novarese offre caratteristici profumi floreali, la croatina dà profumi di frutti e fiori rossi, moderata acidità e buon tenore alcolico.

Celebre nel mondo per i suoi vini rossi, il Piemonte possiede tuttavia una significativa varietà di uve autoctone a bacca bianca. Tra queste, la più coltivata è il cortese, diffuso ampiamente nel Casalese, nei Colli Tortonesi e a Gavi, che si ritroverà anche nell’Oltrepò Pavese e in altre zone in Lombardia. Questo vitigno predilige terreni ben esposti, asciutti e poco fertili, matura a fine settembre e ha una produttività potenzialmente elevata, soprattutto se impiantato su suoli ricchi. Il suo storico territorio di elezione è Gavi, dove è presente almeno dal XVIl secolo. Qui, nei terreni migliori e con rese limitate, dà vini eleganti, freschi e sapidi, di media struttura e interessante longevità, rivelando anche eccellenti potenzialità come base-spumante per il metodo Classico. Terzo vitigno autoctono a bacca bianca per superficie coltivata, l’erbaluce è molto meno conosciuto fuori dal Piemonte. Originario del Nord della regione, ha il suo centro di elezione nel Canavese, in provincia di Torino, ma è diffuso anche nelle province di Biella, Vercelli e Novara, dove è chiamato greco novarese. Citato per la prima volta da Giovanni Battista Croce nel 1605 con il nome di albaluce, è molto versatile e possiede ottima acidità, adatta alla produzione di vini bianchi fermi e, di recente, anche di spumanti metodo Classico. La sua storica notorietà è tuttavia legata allo straordinario vino passito, ottenuto a Caluso con appassimento naturale dei grappoli per oltre quattro mesi nei sulė, i solai. A piena maturazione, gli acini di erbaluce assumono la particolare colorazione che ha fatto coniare il soprannome dialettale di uva rustia, cioè arrostita dal sole, dai quali si ottengono vini eleganti, con profumi di tiglio e acacia, erbe aromatiche e susine gialle, freschi e sapidi, ma anche dotati di buona morbidezza.

Un’altra importante varietà autoctona, rinata a cavallo degli anni ’70-’80, è l’arneis, originario del Roero. Protagonista di un’impetuosa crescita colturale e di un inarrestabile successo commerciale, oggi è sempre più diffuso anche nelle vicine Langhe. Vendemmiato intorno alla terza decade di settembre, produce vini con intense note di fiori, frutta a polpa bianca e vegetali, di buon vigore e inconfondibile sapidità. Un altro vitigno considerato autoctono é la favorita, che ha il suo epicentro colturale nel Roero, dove è già citata nel 1676. In realtà è un vermentino giunto in Piemonte dalla vicina Liguria; sui Colli Tortonesi è vinificato in purezza, con profumi di fiori ed erba, pera e nespola, con buona freschezza e sapidità.

Vitigno mediterraneo per eccellenza, un tempo chiamato furmentin nella Valle del Belbo, ha avuto la sua massima diffusione nell’800 ed è oggetto di rinnovato interesse da parte dei viticoltori di Roero e Langhe.

Il vitigno a bacca bianca più interessante degli ultimi anni è il timorasso, morasso o timoraccio o timuassa, una vera rarità ampelografica, strappato all’oblio cui sembrava destinato grazie all’opera di un geniale viticoltore tortonese negli anni ’80. Ma i numeri sono sempre piccoli, circa 72 ettari iscritti all’albo. Un tempo diffusissimo in un’ampia area compresa tra Voghera, il Novese e Genova, dopo l’avvento della fillossera era praticamente scomparso, sostituito da varietà più produttive e redditizie come cortese e barbera. Il timorasso matura nella seconda metà di settembre, ed essendo soggetto ad attacchi di marciume si trova bene nelle zone collinari più elevate. Dal punto di vista ampelografico, il timorasso presenta una forte contiguità genetica con il sauvignon, con cui condivide la vibrante forza acido-sapida e l’intensità olfattiva, con spiccati sentori agrumati ma senza eccessi vegetali. Dotato di grande predisposizione all’invecchiamento, mette in luce una intensa mineralità, con sentori di pietra focaia e, nel tempo, di idrocarburi, che lo avvicinano ai Riesling alsaziani e tedeschi.

Tra i vitigni internazionali prevale decisamente lo chardonnay, diffuso in tutta la regione e utilizzato con successo nella produzione di vini bianchi fermi, anche con evoluzione in legno e interessanti potenzialità di evoluzione.
Il pinot nero è coltivato nel Monferrato fin dall’800, su impulso di Cavour, e oltre a qualche buona versione in rosso, è utilizzato come base per la produzione di importanti spumanti metodo Classico, sia in purezza sia in assemblaggio proprio con lo chardonnay.

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Uno dei vitigni molto apprezzati dagli intenditori in Italia e non, è il piemontese vitigno Favorita. Il favorita è coltivato prevalentemente nel Roero e in […]

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Gattinara DOCG

La denominazione di origine Gattinara DOCG è riservata ai vini “Gattinara” e “Gattinara riserva”, ottenuti da uve del vitigno Nebbiolo (localmente detto Spanna) in purezza […]

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